Qualche anno fa, mentre mi trovavo ospite in un monastero buddista nella remota valle dello Zanskar, sull’Himalaya indiano, un vecchio monaco mi mise al collo una strana pietra ovale d’un color grigio traslucido con delle strisce chiare. Avevo già visto oggetti simili addosso a qualche religioso, oppure a decorazione dei copricapo tradizionali delle donne tibetane, ma non avevo mai chesto cosa fossero esattamente. Ringraziai il monaco, anche se non avevo la minima idea di quale fosse il valore di quel dono. Guardando meglio la pietra, notai che aveva un aspetto singolare. Sembrava vecchia di secoli e risplendeva di una bellezza consunta, un fascino antico che metteva quasi soggezione. Era lucida e levigata, ma non come può esserlo il ciottolo di un fiume. Sembrava quasi “consumata”, come se una mano grinzosa l’avesse accarezzata per millenni. Decisi che quel monile mi piaceva e che l’avrei tenuto al collo, anche a ricordo dell’ospitalità dei monaci durante quel viaggio fantastico e terribile che avevo fatto sulle montagne dell’Himalaya.
Mi piaceva, anche se non sapevo cosa fosse, ma gli sguardi ammirati dei Tibetani che la vedevano al mio collo mi spinsero a fare delle ricerche. Bene, chiedendo e leggendo qua e là scoprii che il regalo che il vecchio monaco mi aveva fatto era assai prezioso. La pietra che portavo (e tuttora porto) al collo è detta “pietra del paradiso”, che i tibetani chiamano Dzi.
Gli Dzi (si pronuncia zii ) sono delle pietre-amuleto in agata o calcedonio, normalmente di forma ovale o cilindrica, spesso decorate con delle figure geometriche quali cerchi, linee o triangoli, ma talvolta lasciate al naturale per mettere in risalto la stratificazione originale. Queste agate erano utilizzate in antichità sia come oggetti decorativi che come amuleti portatori di energia. Se ne trovano in tutta l’area trans-himalayana: soprattutto in Tibet ma anche in Nepal, Bhutan, India settentrionale, Pakistan e Afghanistan. Molte di queste pietre sono antichissime, e sono tenute in gran considerazione dai Tibetani, che ne sono grandi collezionisti e commercianti. Il valore di una singola di queste pietre può raggiungere qualche decina di migliaio di dollari e spesso in Tibet viene usata come merce di scambio, al posto del denaro.
Oltre che per bellezza e rarità, queste agate sono tenute in gran considerazione per il loro potere benefico e spirituale. I buddhisti attribuiscono un forte valore simbolico sia alla pietra in sè, sia alla combinazione di figure geometriche con cui questa è decorata. La medicina tradizionale tibetana usa la polvere ricavata tritando gli Dzi come farmaco per la cura di svariati mali. Inoltre il campo magnetico degli Dzi è 13, quando quello dei normali cristalli si aggira attorno al 4.
Ma la parte più affascinante di tutta la storia è il mistero che avvolge le loro origini. Questi antichissimi amuleti apparvero sull’Himalaya attorno al terzo millennio avanti Cristo e facevano parte dell’antica cultura Bonpo. Le pietre erano realizzate da genti sconosciute utilizzando l’agata come materiale, e visto che questa è una pietra durissima (7 sulla scala di Mohs), gli studiosi si chiedono ancora oggi come facessero a forarla ed inciderla. Questi misteriosi artigiani lustravano i ciottoli d’agata fino a donare loro una certa lucidità, praticavano un foro per passarvi un filo e li decoravano con linee ed altre forme geometriche utilizzando una tecnica ancora oggi sconosciuta. Si sa che per ottenere il tipico colore nero o marrone l’agata veniva messa in ammollo per mesi in una soluzione zuccherina e successivamente riscaldata provocando la caramellizzazione dello zucchero che la pietra aveva assorbito. Le linee chiare erano ottenute rivestendo la superficie della pietra con una resina, per rendere quella porzione di superficie refrattaria alla caramellizzazione. Per ottenere l’effetto è necessario portare gli Dzi ad una temperatura di svariate centinaia di gradi: ancora nessuno è riuscito a spiegare come riuscissero ad evitare la rottura dell’agata a quelle temperature.
Poi, per cause sconosciute, attorno all’ottavo secolo i misteriosi artigiani smisero di realizzare gli Dzi e le conoscenze relative alle antiche tecniche di lavorazione andarono perdute. Ma anticamente questi monili venivano indossati sia dai laici che dai monaci Bon, ed era tradizione cremare i corpi dei morti con addosso gli stessi Dzi, oltre a gioielli e ad altri amuleti. Inoltre alcuni studiosi sostengono che molti di questi Dzi andavano semplicemente perduti, a causa della rottura del filo che li fermava. Perciò molti degli Dzi giacquero sottoterra per secoli, per poi essere semplicemente “trovati” da ignari e ammirati contadini mentre rivoltavano il terreno o sollevavano una pietra. Questo spiega la credenza popolare tibetana secondo la quale questi talismani non sono oggetti realizzati dall’uomo, ma sono frutto della Natura, o meglio, artefatti divini da qui il nome di “pietra del paradiso”. Secondo le genti dell’Himalaya non è possibile trovare uno Dzi, è lui che “trova” il proprietario, facendosi scoprire.
Grande attenzione era posta nei confronti dei simboli con cui le pietre erano decorate. Un ruolo speciale era riservato ai piccoli cerchi disegnati sulla superficie, gli “occhi”. Più occhi ha uno Dzi, più alto è il suo valore, e il numero di occhi può influenzare gli eventi della vita di chi indossa il talismano. Ad esempio gli Dzi ad un occhio sono associati al sole e rappresentano la forza interiore. Lo Dzi con due occhi è simbolo di armonia e ponderatezza, quello con tre simboleggia creatività e saggezza, ed era prediletto dai commercianti e dagli uomini d’affari. Gli Dzi con nove o più occhi sono rarissimi e possono valere veramente una fortuna.
Negli ultimi decenni la conoscenza di questi talismani antichi e preziosi si è diffusa oltre le montagne dell’Himalaya e oggi sono molti i collezionisti e gli amatori in tutto il mondo che spendono cifre esorbitanti pur di entrare in possesso di un esemplare originale, e con l’avvento del commercio internazionale sono nate anche le riproduzioni. In effetti i Cinesi realizzano “falsi Dzi” già da più di due secoli, ma sono molti anche i Tibetani ed i Nepalesi che riproducono le originali pietre del Paradiso. Le riproduzioni possono essere in vera agata (non prendo nemmeno in considerazione i souvenir in plastica o resina) e di ottima qualità, ma nulla hanno a che vedere con uno Dzi originale se non per il fatto che ne riproducono il design. Infatti è proprio quella bellezza consunta e il mistero quasi impenetrabile che nasconde la loro storia che suscitano un fascino irresistibile in coloro che ammirano un vero Dzi. Quello che porto al collo io è una delle tipologie più antiche. Si chiama Phun Dzi ed ha più di tremila anni. Certo che quel vecchio monaco mi ha fatto proprio un bel regalo.